Donne e vendita: nel mondo della vendita in Italia c’è correlazione tra essere donna e vendere?
Con questo tema inauguriamo una nuova rubrica del blog di Laboratorio Commerciale, dedicata a Società e Vendita.
La domanda di fondo è: cosa facciamo quando ci sono delle caratteristiche personali legate alla nostra persona e la nostra identità, che si mettono in primo piano oscurando le caratteristiche professionali, e pre-determinano l’opinione che il cliente ha di noi senza nemmeno avere la possibilità di provare il nostro valore?
Queste caratteristiche possono essere l’età, il sesso, il settore di provenienza, l’esperienza precedente… In questo primo percorso analizzeremo la correlazione tra la dimensione di genere e il ruolo di venditore, per capire quanto e come essere donna influisca nei risultati e nelle performance di vendita.
La dimensione di genere è spesso oggetto di studi e ricerche, soprattutto in un Paese come l’Italia che sul piano delle pari opportunità ha ancora molta strada da fare, in termini di salari, mansioni, atteggiamenti, in ottica di empowerment e leadership al femminile, e di lotta contro le discriminazioni di genere.
E’ un terreno inesplorato invece quello di un’analisi legata a una figura di linea quale quella della vendita. Chi vende è il tramite tra l’azienda e il cliente, è chi praticamente converte la produzione in fatturato: è ovviamente scopo di un’azienda avere venditori efficaci, e metterli in condizione di svolgere al meglio il proprio lavoro e incrementare le performance.
Ma siamo sicuri che i metri e le misure utilizzati vadano bene per tutti? E nello specifico, sia per uomini che per donne?
Non siamo uguali, è innegabile, e la differenza dovrebbe essere proprio quell’elemento che porta valore aggiunto – prospettive diverse, sensibilità diverse, percezioni diverse, modi di interagire e relazionarsi diversi: tuttavia, spesso un appiattimento di metodi e indicatori, che non tenga conto delle differenze, rischia di azzerare questo potenziale vantaggio, trattando tutti nello stesso modo, e nella fattispecie equiparando le donne a uomini, non considerando alcuni aspetti cruciali.
La vendita per linguaggio, impostazione, metafore, è ancora un mondo molto maschile. Le metafore usate sono maschili (guerra, frontiera, sport di scontro fisico, conquista). Il linguaggio, il gergo, i paragoni, seguono questo filone.
C’è discriminazione per settori: alcuni sono molto femminili e altri molto maschili, spesso in modo stereotipato: quante venditrici vediamo in settori quali automotive o edilizia? Eppure magari in azienda ci sono giovani donne cresciute nel servizio clienti che avrebbero tutte le competenze e le carte per svolgere un ottimo lavoro, ma restano appunto – per immaginario collettivo per cui la donna è addetta alla cura e l’uomo guerriero – relegate al customer care.
Per orari e ritmi del mondo commerciale è inoltre frequente che dopo alcuni anni in questo ruolo una donna cambi mansione in azienda, scegliendo ruoli più “da ufficio” con orari e sede fissa. I ritmi infatti non tengono conto di eventuali famiglie e figli, con trasferte da clienti e attività extra-lavoro connaturate al mondo vendita (cene o pranzi con il cliente) che vanno oltre un canonico orario da ufficio. Questo spostamento ovviamente fa perdere know-how all’azienda e impone di ricominciare da capo.
Infine, last but not least, c’è la dimensione legata alle relazioni personali e al rischio di oltrepassare le linee tra confidenza professionale e attenzioni extra professionali (tema tristemente sotto i riflettori in questi giorni con il caso Weinstein, dove la merce di scambio per la carriera è ben altro rispetto alla professionalità).
Questo tipo di linea di demarcazione è molto delicata nel mondo della relazione venditore-cliente.
La vendita è un corteggiamento, un processo dove il cliente viene fatto innamorare del prodotto e dell’azienda, e quando si svolge tra uomo e donna se la cultura e la mentalità non sono libere da pregiudizi si corre il rischio di attriti o situazioni spiacevoli sia per le persone coinvolte che per l’esito della trattativa stessa (es: battute, apprezzamenti, dare per scontato che una donna non sappia cose tecniche, ….). Come posso continuare a stare seduta al tavolo delle trattative con un cliente che “ci prova”? Cosa fare se quella che dovrebbe essere una giusta distanza professionale viene trasformata in distacco sul piano personale per autodifesa e autotutela, uccidendo quindi qualsiasi forma di empatia e danneggiando irreparabilmente la trattativa e la vendita?
Cose naturali per un venditore uomo non lo sono per la venditrice donna: accettare o fare inviti a cena, accettare o fare “regali” con gadget aziendali sono prassi tra uomini ma rischiano di creare situazioni imbarazzanti o equivoche se le due parti sono di sessi diversi e l’approccio non è paritario.
Spesso a fronte di situazioni difficili le soluzioni sono l’appiattimento delle differenze, e ci troviamo quindi davanti a donne che eliminano la propria femminilità e si comportano da uomo; oppure, il cambio di ruolo.
Ma c’è invece modo che la differenza di genere resti un valore per l’azienda, e non un ostacolo al buon esito di una trattativa o alla crescita di una donna nel suo ruolo? Come azienda o come direttore commerciale, come posso valorizzare il potenziale delle venditrici che ci sono in azienda? E come donna, come posso rafforzare la mia assertività per migliorare le performance superando questi ostacoli?
Con questo percorso di analisi, grazie anche ad alcune interviste a professionisti del mondo vendita che ci racconteranno il loro punto di vista, proveremo a capirlo: alla prossima puntata!